Le difficoltà nel promuovere la sessualità nelle persone con una disabilità intellettiva

Toccare il tema della sessualità nella disabilità è percepito dai più come qualcosa di velleitario, difficile, certamente scomodo. Sesso e disabilità appaiono ancora oggi due temi lontani, quasi tra loro antitetici, dove il primo termine evoca piacere, affetto, amore, positività, vita, mentre il secondo evoca una menomazione, una mancanza, un limite. Nonostante i tentativi di superare un modello medico, ancora oggi la nostra società tende a leggere la disabilità come una sorta di menomazione, ponendo enfasi sul deficit trascurandone le possibilità. Se già nella nostra società è difficile accettare la leicità di una educazione alla affettività e alla sessualità sin dai primi anni di vita del bambino, possiamo capire come  la sessualità di una persona disabile non possa che essere etichettata come qualcosa di “vergognoso”, che è meglio nascondere o far finta di non vedere.

In questo senso sembra di muoversi lungo un doppio binario; da una parte scorrono le leggi, le normative, le profonde evoluzioni in tema di politiche sociali a favore dei disabili che sono state introdotte negli ultimi anni, dall’altra parte vi è una  consapevolezza solo parziale sul diritto delle persone disabili ad una “speciale” normalità totalmente libera da dei pregiudizi sociali sedimentati nel corso dei secoli e dunque ancor più difficile da debellare. Questo aspetto assume una connotazione ancora più marcata se introduciamo il tema del diritto alla sessualità, tema già ricco di pregiudizi e stereotipi nella “non-disabilità”. A rendere ancora più problematico questo tema vi è poi l’infantilizzazione delle persone con disabilità intellettiva, sempre viste come eterni ragazzini non adatti ad una vita adulta per il semplice motivo che è la stessa società a non sapere come e dove collocarli; l’espressione della sessualità diventa allora qualcosa di difficilmente tollerabile ed ammissibile. La sessualità va allora pensata in modo normale cercando di essere promossa nonostante le difficoltà che tale argomento evoca andando a coinvolgere aspetti profondi legati alla nostra intimità e a quella dell’altro. Del resto si parla spesso di acquisizione di competenze, di apprendimenti, di formazione a nuove autonomie, senza che però questi principi coinvolgano il tema della sessualità, dove magari se ne parla ma dove gli interventi concreti per promuovere un cambiamento sono molto modesti.

Qualunque intervento dovrebbe dunque avere l’obiettivo non di limitare o reprimere, ma di individuare delle strategie e delle modalità alternative che permettano lo sviluppo di una sessualità sostenibile anche nella disabilità. Alcuni comportamenti problematici, osservabili ad esempio nella sindrome autistica, riguardano la mancanza di senso del pudore, la masturbazione in pubblico o la masturbazione collettiva. L’aspetto complesso è quello di evitare di reprimere un comportamento socialmente poco adeguato senza promuovere un comportamento più funzionale così che il bambino possa ad esempio imparare a masturbarsi nel posto giusto, nel momento giusto e, cosa non da poco, nel modo corretto. La complessità sta proprio nel dover intervenire in un’area molto delicata che richiede all’operatore di avere raggiunto un ottimo equilibrio con sé stesso tanto da poter entrare nella sessualità di un’altra persona senza che esserne invaso. Il confronto con la sessualità nel disabile deve comunque partire dal presupposto che regole generali di intervento non ne esistono; così come la sessualità afferisce ad un’area personale ed intima, così ogni intervento in questo ambito necessita di essere pensato e progettato in relazione alla specificità della persona.  Stando a questa prospettiva non dovrebbe essere l’operatore a sostituirsi alla persona disabile stabilendo ciò che è giusto o no, a favore di un ruolo più marginale, certo più difficile, di attento lettore  di quei bisogni individuali spesso celati o non espressi, magari perché poco chiari e poco leggibili dalla persona stessa. Il lavoro complesso si situa dunque in questa area di interscambio, dove è difficile pensare ad una sessualità sostenibile  quando  sono gli stessi addetti ai lavori ad avere difficoltà nel pensare ad una sessualità scevra dal pietismo o dall’assistenzialismo, a favore di un’ottica  più “umana” di incontro, di  scambio,  di vita.

Dottor. Francesco Rovatti

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